Foibe: una pagina di storia nazionale
di Giannantonio Paladini
quarta parte
(terza
parte)
Le foibe, dunque: un sostantivo che, al di qua del Tagliamento,
ha forse solo il valore di un termine scientifico (dal latino fovea, fossa, anfratto, voragine naturale del terreno carsico,
cavità imbutiforme che sprofonda in verticale per decine di
metri, talvolta con salti di centinaia) (13), mentre, al di là
dell'Isonzo ne ha certamente un altro, anche simbolico.
Con esso,
si designano certamente gli "infoibamenti", ma anche le
deportazioni, le carceri, i campi di concentramento jugoslavi,
così come tutti i luoghi di occultamento di soldati uccisi in
combattimento, di vittime di esecuzioni sommarie, di vendette
personali, di atti di criminalità comune, tutte accomunate nel
destino di questa sepoltura inumana. Anche se si trattò di
deportazioni in campi di concentramento dai quali, magari, ci si
salvò in parte, rientrando senza dichiararlo, come accadde a
molti militari della Repubblica sociale italiana; anche se la
cosa riguardò soldati tedeschi caduti nella fase finale della
guerra; anche se fu l'esito di uno spirito di vendetta furibonda,
la scomparsa, magari in mare, come i Luxardo, "dietro gli
scogli di Zara" (14), di tanti uomini e donne dalla faccia
della terra, in un'area caratterizzata da un sottosuolo
naturalmente predisposto ad inghiottire, dà alla parola che
riassume tanti, diversi e pur simili, eventi, foibe, un suono
sinistro.
Foibe come violenza indiscriminata, come massacro senza
giustificazione, feroce e disumano, che unì nello stesso destino
collaborazionisti e innocenti, quasi un'onda infernale, in cui
non è possibile discernere.
Distinguere, invece, e frequentemente, è il compito degli
storici. Ed è quello che è stato fatto, anche con il difficile
lavoro di "quantificazione", che può sembrare macabro,
ed è, invece, segno di serietà e di umanità dolente. Il
dibattito triestino e giuliano, dentro e fuori dei confini
nazionali, ha spesso esasperato i calcoli, le cifre sono state,
talvolta, sparate alla cieca. Gli studiosi, ma non soltanto loro,
hanno, invece, fatto un buon lavoro. Si è arrivati a indicare
cifre attorno alle quattro-cinque migliaia, anche se nessuno, di
coloro che ne hanno titolo, rinuncia ai propri convincimenti.
C'è chi ripete che, di qualunque cifra si tratti, la questione
non cambia sul piano sostanziale. Non è vero: anche il numero ha
una sua rilevanza (15). Ma è vero, senza dubbio, che quel che
conta è il "perché" dei massacri. Veniamo, dunque, a
quelle che sono parse le diverse linee interpretative in campo.
Lungo tutto l'arco temporale che va dal 1945 ai nostri giorni,
s'è consolidato, innanzitutto, il giudizio che le foibe abbiano
costituito l'esecuzione di un consapevole progetto di sterminio
della nazione italiana nella Venezia Giulia, elaborato dallo
sciovinismo balcanico e manovrato da comunisti. E' la tesi del
"genocidio nazionale", che oggi, con la discutibile
leggerezza della fase di "conversazione pubblica" della
quale siamo, insieme, protagonisti e vittime, si preferisce
chiamare "pulizia etnica". Al di là dei suoi connotati
ideologici e politici originari, la tesi del "genocidio
nazionale" è divenuta un dato di esperienza: quella,
psicologica e morale, di molta parte degli esuli, e delle loro
organizzazioni più legate al sentimento di nazionalità italiana
dei giuliano-dalmati. D'altra parte, perché istriani, fiumani,
dalmati rimasti a Zara dopo il 1921-1922, avrebbero abbandonato
le loro terre, se non per non morire, i più, ma anche "per
non sottostare a un regime che si rivelava in tutta la sua
crudeltà, ed anche, a prescindere dal regime politico, per
evitare una convivenza difficile per la diversità di lingua,
costumi, cultura"? (16) I nemici da eliminare furono, in
realtà, non gli italiani in quanto tali, ma i reazionari, tutti
quelli, insomma, che non accettavano le posizioni politiche
riconducibili al Fronte di liberazione jugoslavo. Dunque, anche
chi era antifascista, aveva aderito alla Resistenza ma non era
comunista.
Distinzioni troppo sottili, queste, sottigliezze
ideologiche? Resta il dato di fatto, ricordato da Pupo,
dell'"espulsione di massa di un'intera componente nazionale
dalla propria terra, che sanzionò l'incompatibilità storica
della presenza italiana con l'affermarsi dello stato comunista
jugoslavo" (17). Rispetto all'esodo, dunque, che si
configurò come un' "espulsione" vera e propria di
quanti, italiani, non accettarono la piega della storia della
propria terra, non si può non accettare il giudizio di Elio Apih
che ha parlato, a proposito dei "quaranta giorni"
triestini della primavera del 1945, di un "dramma oltre lo
scenario" delle foibe. "La presenza di volontà
organizzata - così lo storico triestino - non è dubbia.
Eliminazione fisica dell'oppositore e nemico (di forze armate
giudicate collaborazioniste) e, insieme, intimidazione e, col
giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta
di un nuovo potere. Tale pare la logica dei fatti. La
spontaneità del furor popolare si cementa in una sorta di patto
di palingenesi sociale, attestato e garantito dalla punizione dei
colpevoli, che basta individuare anche sommariamente perché il
loro ruolo è simbolico prima che personale" (18).
Al polo interpretativo opposto, le posizioni (anche
storiografiche) di parte jugoslava, e della minoranza slovena in
Italia, che ispirarono a lungo la pretesa di "negare la
strage". Dal dicembre 1945 in poi - fino ai primi, timidi e
circospetti accenni innovativi della fine degli anni Ottanta, e
dei primi Novanta, oggi relativamente consolidati (19) - il
motivo dominante fu quello di considerare tutti gli italiani,
della cui scomparsa si chiedeva conto da parte alleata, come
fascisti, caduti o scomparsi in combattimento a fianco dei
tedeschi, o criminali di guerra. Ma si trattava di una tesi
miserabile: la "caccia al fascista", infatti, si
esercitò, perfino con maggiore precisione, nei confronti di
antifascisti, i componenti dei Comitati di Liberazione Nazionale
di Trieste e di Gorizia, e gli esponenti della Resistenza e del
movimento autonomistico di Fiume (20). Un "paradosso"
che si spiega avendo riguardo al fatto che, ad avversare il
"pieno e totalitario" controllo del nuovo regime
jugoslavo di tipo stalinistico erano, assai più che i fascisti
sconfitti, gli antifascisti democratici, e cioè non comunisti,
che la Resistenza l'avevano fatta e si erano così legittimati.
Siano stati, dunque, i comandi militari jugoslavi e le nuove
autorità civili, ovvero, come qualcuno ha ipotizzato, gli organi
della polizia politica (21); si sia o meno sommata, all'azione di
questi ultimi, quella di gruppi di avventurieri, di criminali
"capaci di approfittare del clima di generale confusione
esistente allora in città" (22), negare la strage è stata
la riprova, negli jugoslavi e anche nella minoranza slovena
"ortodossa" in Italia, dell'incapacità di guardare,
con spirito, critico ed autocritico, a quel tragico periodo.
A sé, rispetto ai due blocchi interpretativi sommariamente
delineati, è stato, nei decenni del "lungo
dopoguerra", quel gruppo di opere di studiosi giuliani di
diversa formazione che, nell'ambito dell'attività dell'Istituto
regionale per la storia del movimento di liberazione nel
Friuli-Venezia Giulia, hanno tentato di inserire anche le vicende
di cui stiamo parlando all'interno del quadro risultante
dall'impatto della politica e delle istituzioni del fascismo sui
rapporti fra slavi e italiani nella Venezia Giulia. Impostazione
ineccepibile, anche se non si può ridurre il fenomeno delle
foibe a un "eccesso di reazione" alla lunga catena di
precedenti violenze di segno opposto. Così facendo, infatti, si
corre il rischio di far prevalere preoccupazioni
ideologico-politiche su quelle del rigore storico: è quello che
accade se ci si limita a guardare alla dialettica città-campagna
in Venezia Giulia e si applica anche alle foibe lo schema della
"rivolta contadina" (23). Occorreva, invece, inserire
senza remore, anche le foibe nel quadro più largo rappresentato
dal processo di costruzione del comunismo tra guerra e
dopoguerra. E' l'approccio di studiosi che riescono così a
valutare comparativamente il comportamento tenuto dai partigiani
comunisti per instaurare la propria autonomia sia nei confronti
di sloveni e croati anticomunisti o non comunisti, sia in quelli
dei giuliani di "sentimenti italiani" (24). E' l'approccio che conduce Elio Apih ad affermare che "i fatti
hanno anche motivazione antitaliana, ma questa non pare
preminente" perché, "nel 1945, Trieste fu, per
quaranta giorni, lambita dall'onda di una rivoluzione" (25).
(quinta
parte)
Note
- 13) Ma chi ha seguito in questi anni le
polemiche sul Bus de la Lum sa che neppur questo è vero.
- 14) Cfr. N. LUXARDO DE FRANCHI, Dietro
gli scogli di Zara, Editrice Goriziana, Gorizia 1992.
- 15) Per una disamina accurata delle
"quantificazioni" proposte, cfr. R. SPAZZALI,
Foibe, cit. Uno schema riassuntivo è nel mio Più
luce sulle foibe, "II Ponte", a. XLVII, n.
4, aprile 1991, pp. 93-102. Di recente, Francesco Semi,
nel suo bel volume La cultura istriana nella civilta
europea, Alcione Editore, Venezia, 1996, ha parlato
di ottomila "infoibati".
- 16) F. SEMI, Istria e Dalmazia. Uomini
e tempi. I. Istria e Fiume, Del Bianco, Udine 1991,
p. 424.
- 17) R. PUPO, Venezia Giulia, cit.,
p. 243. Sull'esodo, cfr. C. COLUMMI - L. FERRARI - G.
NASSISI - G. TRANI, Storia di un esodo. Istria
1945-1956, Istituto regionale per la storia del
movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia,
Trieste, 1980, unico studio organico sul problema, ma
vedi ora, anche la buona sintesi di F. MOLINARI, Istria
contesa, Mursia, Milano 1996.
- 18) E. APIH Trieste, Laterza, Bari
1988, p. 166.
- 19) Cfr. R SPAZZALI, Foibe, cit.,
in particolare alle pp. 599 e ss. Sulle maggiori novità
relative all'accresciuta disponibilità di fonti slovene
e croate, cfr. F. SALIMBENI, Istria, cit., pp.
147-148. Da quattro anni sono, del resto, al lavoro due
commissioni miste, una italo-croata e una italo-slovena,
che stanno acquisendo prove e documenti. Non si tiene
conto, quì, della pubblicistica, in particolare di
quella di destra, che spesso non si limita, in questi
anni Novanta, alla riproposizione di punti di vista
ideologici, ma compie anch'essa sforzi interpretativi
più equilibrati.
- 20) Cfr. E. MASERATI, op. at., pp.
117-122.
- 21) E' la tesi contenuta in M. PACOR, Confine
orientale. Questione nazionale e resistenza nel
Friuli-Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964.
- 22) E. MASERATI, op. cit., pp. 98-100.
- 23) Cfr. C. COLUMMI, Guerra,
occupazione nazista e resistenza nella Venezia Giulia: un
preambolo necessario, in Storia di un esodo, cit., in particolare alle pp. 36-39.
- 24) Cfr. B. NOVAK, Trieste 1941-1954 La
lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano
1973 e D. de CASTRO, La questione di Trieste, cit.
- 25) E. APIH, Trieste, cit., p. 166.
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